Anno IX - Numero 10
Non è sufficiente parlare di pace. Bisogna crederci.
Eleanor Roosevelt

martedì 31 gennaio 2017

Come si risolve il problema dei voucher

Rappresentano una piccola quota del reddito e prestazioni che in ogni caso non si tramuterebbero in contratti stabili, ma che semmai non verrebbero commissionate. Dunque anche se si aboliscono i voucher resta la questione di come regolamentare il lavoro accessorio. I possibili tetti all’utilizzo.

di Simone Ferro

I voucher sono un metodo per retribuire prestazioni di lavoro accessorie. Il datore di lavoro acquista i buoni online, oppure presso poste, edicole, banche o tabaccai e li consegna al lavoratore che, del valore facciale di 10 euro, ne incassa 7,5. I restanti 2,5 si ripartiscono in contributi e spese di gestione Inps e una copertura Inail. Questo reddito non dà diritto ad alcun ammortizzatore sociale, ma è riconosciuto ai fini del calcolo della pensione, non incide sullo stato di disoccupazione del lavoratore ed è esente da imposte.
Introdotti nel 2003, sono rimasti inapplicati fino al 2008. Lo strumento, inizialmente riservato a studenti e pensionati limitatamente al settore agricolo, è stato progressivamente esteso a tutti i settori e a tutte le categorie. L’ultima novità arriva dal Jobs act che, insieme all’ampliamento del tetto annuale percepibile da un singolo lavoratore a 7mila euro, ha modificato i requisiti di tracciabilità, introducendo l’obbligo di attivazione telematica e di indicazione dell’orario della prestazione.
Nonostante la crescita esponenziale e l’allarmismo dei sindacati, i voucher rimangono uno strumento marginale e rappresentano solamente lo 0,23 per cento dei redditi da lavoro privato.
Tuttavia, la Cgil ha raccolto 3,3 milioni di firme per abolirli. Vale dunque la pena analizzare vantaggi e svantaggi dello strumento.

Lavoro nero emerso o coperto?
Chi è per l’abolizione ritiene che i voucher vengano utilizzati per coprire il lavoro nero, vadano a discapito di altre forme di contratto più tutelanti e rappresentino perciò una nuova forma di precarietà.
Prima del Jobs act, lo strumento si prestava innegabilmente alla copertura di lavoro nero. Per regolarizzare una giornata lavorativa senza incorrere in sanzioni, era infatti sufficiente che il datore di lavoro attivasse un solo voucher e, in caso di ispezione, poteva dichiarare la presenza del lavoratore solo per quell’ora. Ora, con l’introduzione dell’obbligo di indicazione dell’orario della prestazione, non è più così. Per non rischiare sanzioni, il datore deve pagare il lavoratore con almeno un voucher l’ora per l’intera durata della prestazione.
Nonostante la costante crescita, il numero medio di voucher riscossi per prestatore è rimasto stabile intorno ai sessanta annui. Nel 2015, il 97,8 per cento dei prestatori ne ha incassati meno di trecento. Dunque, per la quasi totalità dei prestatori sono entrate marginali. Senza voucher, questi rapporti di lavoro non verrebbero probabilmente formalizzati in alcun modo o, nel caso peggiore, non verrebbero nemmeno instaurati. In ogni caso, dati gli importi, si tratterebbe di contratti a tempo determinato di durata minima e non certo di contratti stabili.
I sostenitori dei voucher, invece, ritengono che lo strumento faccia emergere lavoro che verrebbe altrimenti pagato in nero. Il sistema è inoltre ritenuto vantaggioso dal punto di vista burocratico e fiscale.
È tuttavia opportuno chiedersi quali siano i vantaggi dell’emersione. Il reddito da lavoro accessorio è esente, l’erario non ricava alcun introito. Il lavoratore non accede ad alcun ammortizzatore sociale: non ha diritto a malattia né a disoccupazione e non ha ovviamente alcuna garanzia sulla continuità del rapporto lavorativo. I dati Istat rilevano inoltre che l’84 per cento dei percettori ottiene meno di 130 voucher in un anno, la quota necessaria a farsi riconoscere un solo mese di contribuzione. I contributi così versati dunque concorrono solo all’importo della pensione per la quasi totalità dei prestatori, ma con un impatto quasi irrilevante.
Se si esclude il vantaggio statistico dell’emersione di questa piccola quota di sommerso, l’unica differenza rispetto al lavoro nero è perciò la copertura Inail, tutela certamente importante ma non sufficiente per il lavoratore.

Come regolare il lavoro accessorio
Si possono certamente abolire i voucher, ma rimane comunque il problema sottostante del lavoro accessorio e di come regolamentarlo.Ad oggi, l’unico limite all’utilizzo dei voucher risiede nel tetto di 7000 euro al reddito annuale netto percepibile da un singolo prestatore dalla totalità dei committenti. Tale massimale è ridotto a 2000 euro per il reddito percepibile da un singolo committente. La legge non impone tuttavia nessun vincolo sul numero di prestatori per datore di lavoro, il ricorso al lavoro accessorio da parte delle imprese rimane perciò teoricamente illimitato. Per evitare che un committente ricorra in modo intensivo allo strumento a discapito di posizioni più stabili, si otterrebbero risultati migliori spostando il limite all’ammontare dal lavoratore all’impresa, ponendo un tetto ai voucher erogabili dal singolo committente in ragione della forza lavoro che impiega. Sarebbe inoltre opportuno circoscriverne l’utilizzo alle attività che per natura richiedono prestazioni occasionali, quali ad esempio piccole imprese del settore alberghiero o agricolo, dove i picchi stagionali comportano spesso la necessità di impiegare lavoratori per brevissimi periodi, e a committenti individuali nel caso di servizi domestici occasionali.
Individuare con precisione queste attività è certamente complicato, ma si potrebbe precludere il ricorso al lavoro accessorio quanto meno alle grandi imprese del secondario, per le quali l’utilizzo dei voucher non è giustificato da alcuna esigenza organizzativa.

Simone Ferro per Lavoce.info