Anno IX - Numero 12
La guerra non è mai un atto isolato.
Carl von Clausewitz

martedì 16 maggio 2017

Quando un taglio dell’Irpef può far nascere più bambini

Ridurre la tassazione sul secondo percettore di reddito potrebbe rivelarsi una buona idea per contrastare la bassa natalità in Italia. Perché molto spesso si tratta di donne e una misura simile favorirebbe la loro partecipazione al mercato del lavoro.

di Chiara Rapallini

Perché sostenere il secondo percettore di reddito
Il Programma nazionale di riforma presentato l’11 aprile dal governo accenna all’adozione di misure per il sostegno all’occupazione femminile e per il secondo percettore di reddito (pagine 79 e 80). Un intervento di questo tipo sarebbe una buona misura pro-natalità, data la relazione positiva tra partecipazione femminile al mercato del lavoro e tassi di fecondità.

Nell’81 per cento delle famiglie bi-reddito italiane, il secondo percettore è una donna. Un eventuale intervento sull’Irpef a favore del secondo percettore è dunque un modo di ridurre la tassazione sul reddito da lavoro delle donne, incoraggiando così la loro partecipazione al mercato. Per tradurlo in pratica, si potrebbero estendere le categorie di spesa per la cura dei bambini detraibili dall’Irpef, aggiungendo alle voci oggi previste (asili nido e istruzione) quelle per baby-sitter, centri estivi o altro, e nello stesso tempo aumentare l’aliquota di detrazione se entrambi i coniugi lavorano, riducendo così quella effettiva pagata dai nuclei bi-reddito.
In questo modo si renderebbe la scelta delle madri di continuare a lavorare dopo la nascita dei figli un’opzione concreta e fattibile, mettendo le coppie in condizione di decidere di avere un secondo, se non un terzo figlio. Solo l’occupazione di entrambi i coniugi assicura, infatti, le risorse necessarie a crescere più bambini. Un intervento di questo tipo non ha vizi di incostituzionalità, che sono invece presenti nei casi della tassazione differenziata per genere o della tassazione familiare, implicita nel quoziente familiare. E la proposta era già emersa il 10-12 marzo scorso al Lingotto, nel gruppo di lavoro “Nuova economia e fisco amico”.

Misure diverse per due obiettivi diversi
Le implicazioni negative per la collettività di un basso tasso di natalità sono note a tutti, ma la relazione tra natalità e tassazione è meno immediata e merita una riflessione. O meglio, il disegno delle politiche a sostengo della natalità richiede una corretta rappresentazione della relazione che esiste non solo tra tassazione del reddito e occupazione femminile, ma soprattutto tra quest’ultima e la fecondità.
Infatti, una delle maggiori trasformazioni avvenute nell’ultimo quarantennio nella società occidentale è l’inversione della relazione tra occupazione femminile e numero medio di figli per donna. Nel 1980 la relazione era negativa: il numero medio di figli per donna era più alto nei paesi dove si registravano bassi tassi di occupazione femminile. Negli anni Duemila la relazione è diventata invece positiva, ossia il numero medio di figli per donna è più alto laddove i tassi di partecipazione femminile al mercato del lavoro sono più alti.
Gli ultimi dati Oecd (2014) mostrano che in Europa esiste un nutrito gruppo di paesi con tasso di occupazione delle madri tra il 72 e l’83 per cento, nei quali si registrano tassi di fecondità tra l’1,7 e il 2: Svezia, Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio, Finlandia, Francia. All’estremo opposto si trovano paesi (ad esempio Polonia, Italia, Grecia, Spagna, Malta, Cipro e Ungheria) con tassi di occupazione femminile delle madri tra il 50 e il 70 per cento, associati a tassi di fecondità tra l’1,3 e l’1,4.
Nel nostro paese, la stessa fotografia si ottiene se si guardano i dati per regione su partecipazione femminile al mercato del lavoro e fecondità: le regioni del Sud registrano i valori più bassi di ambedue gli indicatori (Sardegna, Basilicata, Calabria e Puglia, per esempio), mentre in alcune tra quelle del Centro-Nord (Veneto, Lombardia, Valle d’Aosta, Emilia-Romagna) entrambi gli indicatori sono al di sopra della media del paese.

Stabilire un nesso causale tra occupazione femminile e tassi di fecondità è più complesso, ma le analisi comparate tra paesi avanzati mostrano che la relazione tra fecondità e sviluppo è diventata positiva negli stati con più alto indice di sviluppo umano e che hanno adottato politiche a favore della parità di genere. In questi paesi si registrano alti livelli di istruzione delle donne, una partecipazione femminile al mercato del lavoro di livello analogo a quella maschile e una più egualitaria divisione del lavoro di cura e di casa fra i coniugi.

In effetti, la misura a favore delle coppie bi-reddito è solo una delle tante che sarebbero necessarie se si fosse davvero persuasi che la bassa natalità italiana è un’emergenza. Quello che qui si vuole sottolineare è l’importanza di disegnare politiche con obiettivi precisi e fondate su una corretta conoscenza dei fenomeni sociali sottostanti. Nelle politiche di supporto alla famiglia è necessario distinguere due obiettivi, ugualmente importanti, ma da tener distinti. Da un lato, c’è il contrasto della povertà, e in particolare di quella minorile, dall’altro c’è il sostengo alle donne che lavorano dopo la nascita dei figli. Si tratta di due obiettivi per i quali vanno adottate politiche diverse, ma per la ripresa della natalità in Italia è più importante il secondo rispetto al primo.

Chiara Rapallini per LaVoce.info