Anno IX - Numero 10
Non è sufficiente parlare di pace. Bisogna crederci.
Eleanor Roosevelt

martedì 21 febbraio 2017

La legge contro le fake news: un misto di ignoranza e voglia di censura

Bisogna ringraziare la senatrice Adele Gambaro (di ALA-SCCLP) e i 27 co-firmatari del disegno di legge, presentato in conferenza stampa al Senato il 15 febbraio (non ancora assegnato a nessuna commissione), per combattere le “fake news” - meglio, “prevenire la manipolazione dell’informazione online, garantire la trasparenza sul web e incentivare l’alfabetizzazione mediatica”. Il testo, pur se in bozza (o forse proprio per quello), è infatti il miglior dizionario attualmente disponibile per comprendere come un certo establishment politico (e giornalistico) concepisca Internet e la sua regolamentazione: come lo fraintenda, demonizzi, e cerchi di irregimentare così che diventi un innocuo strumento di trasmissione del consenso, invece che un libero canale di espressione del dissenso.

di Fabio Chiusi

Una vera e propria summa ideologica che va ben oltre la sola questione delle bufale online che tanta (immeritata) attenzione ha suscitato da quando il mondo liberal statunitense ha diffuso la “fake news” per cui sarebbe stata la disinformazione online a far vincere Donald Trump. Nella proposta di legge, sostenuta da rappresentanti di quasi tutto l’arco parlamentare, si sommano infatti questioni arcinote a chi si occupa di libertà di espressione su Internet nel nostro Paese: la volontà di introdurre un severissimo obbligo di rettifica per i blog, come almeno dal 2009 a questa parte; una parodia del diritto all’oblio, confuso – al solito – con la disciplina della diffamazione; il contrasto esplicito dell’anonimato, altro cavallo di battaglia dei giustizieri della “ggente” online, Gabriella Carlucci ieri ed Enrico Mentana oggi; e, naturalmente, la legge invocata a gran voce, da Giovanni Pitruzzella al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, passando per l'indefessa Laura Boldrini, presidente della Camera, a difesa dei cittadini contro la propaganda, le bugie e l’odio in rete.
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Quanto pesano le clausole di azione collettiva sul debito

Una eventuale uscita dall’euro sarebbe possibile solo con una ridenominazione del debito pubblico in lire. Ma dal 2013 sono in vigore le clausole di azione collettiva. Avrebbero effetti sulla ristrutturazione del debito? Sembra di no, a giudicare dai rendimenti dei titoli a parità di vita residua.

di Giovanni Siciliano

Due interpretazioni per le clausole di azione collettiva
Il dibattito sulla possibilità di uscita dall’euro si è riacceso dopo l’intervento di Mario Draghi alla Commissione Affari Economici e Monetari del Parlamento europeo.
Pur con effetti comunque catastrofici, l’uscita è vagamente ipotizzabile solo se il debito pubblico può essere ridenominato in lire. Altrimenti il rischio di cambio per lo stato sarebbe insostenibile.
Tuttavia, secondo alcuni analisti e commentatori non sarebbe legalmente possibile convertire in lire l’intero stock del debito pubblico perché i titoli emessi a partire dal 2013 sono assistiti dalle cosiddette “clausole di azione collettiva” o Cac.
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Sono élite e me ne vanto

Ci attaccano. Per le competenze, le idee, il buon governo. Perché siamo politicamente corretti. Basta sentirsi in colpa. Contrattacchiamo. Siamo meglio di loro.

di Flavia Gasperetti

L’élite è il nemico. Intellettuale, salottiera, radical-chic, fighetta. Lo dicono tutti. Se la Gran Bretagna è uscita dall’Europa, se Trump è presidente degli Stati Uniti, se i grillini spopolano da noi e così via, è tutta colpa di questo insidioso nemico. Ecco, ho inevitabilmente pensato leggendo un articolo qualche giorno fa: quel nemico sono io. Quanto a te, caro lettore, ci sono buone probabilità che lo sia anche tu.

L’articolo in questione è di Eliane Glaser, uscito il 2 febbraio scorso sull’Independent, e inizia così: «In quanto accademica londinese di inclinazione progressista, faccio parte del nemico della nostra epoca: l’élite liberale e metropolitana».
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Incidenti e costi nascosti: che cosa insegna il nucleare francese

Il 78% dell’elettricità francese è prodotta dalle centrali nucleari, ma il governo ha adottato una strategia per portare questa quota al 50% entro il 2025. Intanto si riapre il dibattito dopo l’esplosione all’impianto di EDF di Flamanville e le spese fuori controllo del colosso elettrico d’Oltralpe.

di Gianluca Ruggieri

L’industria nucleare è tornata a far parlare di sé. A fine gennaio, EDF, l’azienda elettrica francese proprietaria di tutti gli impianti nucleari attivi nel Paese, ha deciso di iniziare il lento processo che dovrebbe portare a una progressiva denuclearizzazione delle forniture elettriche d’Oltralpe. Attualmente il 78% dell’elettricità francese è prodotta da fonte nucleare, ma il governo ha adottato una strategia per portare questa quota al 50% entro il 2025. Pilastro della strategia è il limite alla potenza installata.
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