Anno IX - Numero 12
La guerra non è mai un atto isolato.
Carl von Clausewitz

martedì 6 febbraio 2018

Brexit, se il gioco si fa duro

Nei giorni scorsi il Financial Times ha riportato che l’Unione europea starebbe valutando sanzioni durissime contro il Regno Unito se quest’ultimo, dopo la definitiva uscita dalla Ue e la firma di un trattato di libero scambio con i 27, tentasse un approccio di radicale concorrenza fiscale e regolatoria per attrarre investimenti esteri. Le misure previste potrebbero arrivare ad includere il Regno Unito nella black list dei paesi fiscalmente non cooperativi, cioè dei paradisi fiscali

di Mario Seminerio

Secondo il documento visionato dal Ft, Bruxelles considera quella del Regno Unito come un’economia troppo grande e troppo vicina al blocco europeo per essere gestita con le previsioni tipiche di un “normale” trattato commerciale. In particolare, sarebbe emersa l’esigenza di tenere sotto controllo Londra riguardo a sussidi ad investimento, commercio e competizione. Il blocco Ue, nelle slide visionate dal Ft, riconosce che il Regno Unito è già oggi un’economia a bassa pressione fiscale, “con un grande numero di entità offshore”, e che le restrizioni politico-legali di cui Bruxelles dispone sono molto limitate.

Per il mantenimento degli attuali standard fiscali, la Ue prevede “requisiti vincolanti” su scambio di informazioni, misure anti elusione e trasparenza. In caso di mancata ottemperanza a tali richieste da parte di Londra, Bruxelles minaccia di inserire il Regno Unito nelle liste delle giurisdizioni fiscali non cooperative, che prevedono varie misure di ritorsione, tra sanzioni finanziarie, azioni contro specifiche imprese e settori e sospensione dei diritti commerciali stabiliti nel trattato.

Quanto sopra indicato vale anche come misura di contrasto a quello che viene definito “dumping regolatorio”. Tra gli ambiti citati vi sono quelli degli standard ambientali richiesti alle imprese, ad esempio sui limiti alle emissioni di gas serra, e le protezioni sociali per i lavoratori.

Prevedibile che i britannici reagiranno male a questa camicia di forza fiscale e regolatoria, che di fatto affronta le minacce pronunciate da Londra all’indomani dell’esito referendario, nell’illusoria convinzione di rafforzare in tal modo la propria mano negoziale, quando si ipotizzava di fare del Regno Unito una sorta di Hong Kong o Singapore piantato sulla sponda europea dell’Atlantico. Anche se queste minacce apparivano piuttosto spuntate, visto il tessuto sociale del paese e gli esiti elettorali successivi.

Come che sia, pare che la Ue stia facendo i compiti a casa, e li stia facendo come un sol blocco; Londra, invece, resta balbettante, dopo aver chiesto di fatto di prorogare l’Articolo 50 ma senza che si potesse chiamare cane un cane, in quelle sublimi ipocrisie che punteggiano le relazioni internazionali, e tuttora in assenza di un dibattito nazionale su quale modello economico e sociale perseguire “dopo”, visto che Theresa May passa il suo tempo a cercare di tenere in disperato equilibrio il proprio governo, costantemente sull’orlo di una crisi di nervi.

Già nei giorni scorsi, Londra aveva chiesto di poter avere non tanto un diritto di veto quanto di non meglio precisata “consultazione” sulla produzione normativa della Ue, durante il periodo di transizione, ed è stata mandata a stendere (ovviamente). Nel frattempo, fors’anche per ritorsione spicciola, o più propriamente per raccattare chip negoziali, Theresa May ha fatto sapere che i diritti dei cittadini comunitari che giungeranno in UK dopo marzo 2019, cioè durante il periodo di transizione, saranno parte del negoziato complessivo con Bruxelles.

Saranno mesi ed anni molto difficili, per Londra. Questo è il prezzo da pagare per lasciare un mostro economico e geopolitico come l’Unione europea. Anche per questo, oltre che per dare massima coerenza al vacuo precetto che “Brexit means Brexit”, io resto tifoso di una Hard Brexit, da compiere inderogabilmente a marzo 2019. Mi pare lo chiamino clean break, e l’immagine rende molto. Tutta la restante mendicità su “periodi di transizione/implementazione” da negoziare con Bruxelles, è segno di debolezza negoziale ingravescente, e come tale viene sfruttato dai “continentali”. Questo per chiarire, in caso foste colti da sdegno per le “prevaricazioni” bruxellesi, che tali non sono.

Mario Seminerio per Phastidio.net